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Mediaset cambia vita, di Vincenzo Vita

Il presidente Fedele Confalonieri con il gruppo dirigente di Mediaset si è recato a Bruxelles per celebrare il trentennale di Act, l’associazione europea delle televisioni commerciali. Ma da quando, sul finire degli anni ottanta, fu pensata quella struttura, il mondo è completamente cambiato. In tutti i sensi. A cavallo con gli anni novanta scoppiò la bolla commerciale, santificata dalla legge Mammì dell’epoca. Battaglia frontale a suon di ascolti con la Rai, con tanto di accaparramento dei “divi” alla calciomercato. Pubblicità a go go, interrompendo film e usando i siparietti delle telepromozioni. Il servizio pubblico reagì con il rilancio della terza rete, che attrasse fasce di consumo nuove e sollevò la qualità complessiva. Comunque, quella gara costrinse entrambi i protagonisti del duopolio a cercare di darsi un tono. Così, Mediaset faceva scorrere nel flusso il terribile Tg4 di Emilio Fede, ma pure Italia uno con Carlo Freccero o i programmi di Gregorio Paolini e Michele Santoro.

Democratico Berlusconi? Tutt’altro. Basti pensare all’orrendo “editto bulgaro” del 2002, che mise alla gogna Enzo Biagi, Daniele Luttazzi e lo stesso Santoro. Però, pur nel fuoco delle vicende giudiziarie e nell’angosciante permanenza del conflitto di interessi, un’idea di televisione si appalesava. Che rimane di tutto quello? Confalonieri usa dare la colpa dei mali del mondo agli Over The Top, da Google a Facebook, pericolosissimi oligarchi del sistema. Ha solo in parte ragione.

Il sommovimento nell’infosfera, il trionfo della rete e delle piattaforme digitali hanno reso via via secondario il territorio della televisione generalista. Quest’ultima può decidere di spegnersi lentamente, ovvero di interagire con i giganti mettendosi alla testa di un movimento che costringa la sfera pubblica a pretendere trasparenza degli algoritmi, negoziandone la morfologia. Ciò vale per tutti, ovviamente.

Il caso di Mediaset merita, però, una specifica riflessione politica. Fintanto che la luce berlusconiana splendeva, i canali di Mediaset reggevano. Se si guarda l’attuale offerta del palinsesto non c’è di che rallegrarsi. A parte il caso molto particolare di Maria De Filippi, che è a sua volta un’azienda che vende programmi, il resto non affascina. La conclamata trasformazione moderata di Rete4 non ha funzionato. Anzi. I talk in voga hanno certamente contribuito al declino elettorale di Forza Italia, portando consensi alla Lega di Salvini. Di quella temperie antica i testimonial in campo rimangono Barbara D’Urso e le televendite? Che sia un “naturale” trascinamento della situazione o un accordo in vista di un possibile futuro buio non è dato sapere. Certamente, però, lo stacco tra la televisione edonista dell’epoca e l’urlo populista di oggi è proprio forte. I dati, del resto, parlano chiaro: dal 2010 al 2018 l’ascolto nel prime time è diminuito dal 37,5% al 32% e la raccolta pubblicitaria è passata da 2.866 milioni di euro a 2.112.

Non per caso Mediaset sta costruendo un progetto europeo (Mfe), vale a dire una holding con sede legale in Olanda, con un portafogli incrementato dalle presenze spagnole e dalla partecipazione nella tedesca Prosiebensat. C’è lo scoglio di Vivendi, che dispone di una forte minoranza di blocco. La società di Bolloré è in lite giudiziaria da qualche anno, a cominciare dalla vicenda di Mediaset Premium. Sembra che la trattativa sia ormai agli sgoccioli. E c’è da scommettere che si risolverà in un compromesso.

Nel capitalismo funziona così: si litiga a insulti e si portano facilmente le carte in tribunale. Quando l’interesse chiama il sereno ritorna, con misurate passioni. E sembra questo il caso.

Vincenzo Vita