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AgCult | Quanto vale la cultura? Interpretazioni e indirizzi nel Rapporto OECD

Il Rapporto “The Culture Fix” indica percorsi e strategie per diffondere informazioni tecniche, assistere le imprese in modo sartoriale, incentivare fertilizzazioni asimmetriche tra le ICC e il resto dell’economia

Photo by Natosha Benning on Unsplash

Su cultura e creatività è attivo da molti anni un generatore automatico di rapporti. Istituzioni internazionali, governi centrali, amministrazioni territoriali sfornano analisi dimensionali la cui priorità sembra adagiarsi sulla misurazione del peso che il comparto culturale e creativo, pur variamente definito e descritto, produce nell’economia. Percentuali del PIL, proporzione degli occupati, settori contigui, per chiudere – quando le condizioni lo permettono – con l’impatto monetario: alberghi, ristoranti, trasporti.

L’approccio metodologico di questi rapporti, così come la narrazione pubblica che ne accompagna e ne enfatizza l’uscita, scaturiscono dall’urgenza di compiacimento di un comparto – quello culturale e creativo, appunto – che tuttora si sente negletto dal paradigma industriale e che vuole dimostrare la propria capacità di generare effetti finanziari non meno del comparto manifatturiero. Sembra quasi che questo sorridersi allo specchio sia la risposta viscerale a un persistente complesso d’inferiorità.

Non basta. Dal versante italiano gli echi che s’odono intorno a queste ricognizioni periodiche ne accentuano spesso il profilo celebrativo, a rimarcare l’unicità di un Paese – dovremmo dire ‘di una cultura’ se non fosse così rischiosamente sciovinistico – che tuttora indulge in metriche fantasiose come il presunto possesso della maggior parte del patrimonio culturale mondiale. Le cifre variano da ‘oltre metà’ al 75%, dimenticando che si tratta di un’inferenza impropria fatta negli anni Settanta sulla proporzione dei furti d’arte avvenuti in Italia in confronto al dato europeo.

Lettura tardo-agricola, con un Pantheon (da Piranesi e Croce ai loro nipotini tuttora in assetto bellico) interpretato ad usum delphini e adottato come scusa per snobbare il resto del mondo. Non soltanto l’empirismo laico di molte esperienze emergenti altrove viene considerato blasfemo (dai musei che deaccessionano e delocalizzano all’opera che preferisce il repertorio alla stagione), ma l’ingresso stesso dello ‘straniero’ in Italia viene letto come un’invasione indebita; ricordiamo tutti la levata di scudi grottesca all’arrivo di direttori non italiani nei nostri musei che, ovviamente, non sono stati indotti a vendere l’anima al diavolo per mano forestiera, come non poche vestali temevano.

Perché misurare, e magari valutare, il valore e le dinamiche dell’industria culturale e creativa? Certo, serve prendere atto della sua consistenza e del suo apporto all’economia e al benessere. Da qui dovrebbe scaturire una riflessione critica e tecnica sulle opzioni sinergiche e costruttive che lo stesso sistema culturale può, possibilmente vuole, certamente ha convenienza ad attivare e consolidare con la società e con le attività produttive e commerciali, anche in modo da poter ritarare il proprio rapporto con le istituzioni pubbliche, spostandone il ruolo e l’azione da garanti della sopravvivenza a complici strategiche.

L’unicità del sistema culturale, dal patrimonio alle imprese, dai talenti ai fermenti, non può essere soltanto un fattore di celebrazione. Al contrario, va interpretata come uno snodo di responsabilità. Leggere i rapporti sullo stato di salute dell’industria culturale e creativa ha senso se siamo inclini a trarne indicazioni relative alla visione da adottare, all’orizzonte temporale e spaziale verso il quale muoversi, al reticolo di relazioni da stabilire e rafforzare, alla necessaria assunzione congiunta di responsabilità tra istituzioni e cultura.

Mutamenti radicali, da alcuni punti di vista. Sempre meno prescindibili, se si considera la trasformazione rapida e intensa che riguarda tutti i gangli della società contemporanea. Mentre ci si ostina a torturare la speranza di sponsorizzazioni, le imprese più visionarie dialogano con gli artisti, adottano segni culturali come icone identitarie, riversano la musica operistica e sinfonica nelle proprie pubblicità. Mentre si protegge come una riserva naturalistica il pubblico degli iniziati temendo di infastidirli con azioni ‘improprie’, studi avanzati dimostrano quanto l’arte e la cultura incidano positivamente sulla salute, sulla consapevolezza, sul capitale sociale, sull’inclusione dei fragili. Un mondo in mutamento non può rinunciare alla propria urgenza di rappresentazione del sé.

Nella fiumana delle ricognizioni sul valore della cultura e della creatività, tabelle rassicuranti e analisi confortanti conducono molto raramente al ragionamento indispensabile: che fare? Solo in pochi casi i rapporti su cultura e creatività sfociano nell’elaborazione di linee-guida non pregiudiziali che possano fornire agli amministratori un glossario tecnico di azioni compatibili con lo stato della legislazione, alle imprese culturali e creative un orizzonte strategico che ne estenda l’area progettuale e ne accresca il grado di sostenibilità, al legislatore stesso una spinta a ridisegnare la filosofia di fondo e la cassetta degli attrezzi dell’azione pubblica, tuttora limitata a un lotto di salvagenti finanziari a pioggia, nascosti dietro cripto-metriche più flessibili nei fatti di quanto non si dichiari.

“The Culture Fix. Creative People, Places and Industries”, appena pubblicato dall’OECD, adotta un approccio sostanzialmente diverso. Numeri, certo, per prendere le misure e costruire una prima mappa; attraversandola ci si imbatte in nuove indicazioni di percorso, a partire da quelle innovazioni “non adeguatamente catturate nelle statistiche ufficiali” che i settori culturali e creativi innervano in altre aree: nuovi prodotti, servizi e contenuti, nuovi modelli strategici, modi di co-produzione, mobilità delle competenze. In tempi nei quali il paradigma emergente, magmatico e versatile, crea nuove professioni, dinamiche economiche inedite, gerarchie di valori inattese, il contributo dei settori culturali e creativi risulta cruciale e può affrontare efficacemente questioni che gli strumenti convenzionali potrebbero addirittura non riconoscere.

Il Rapporto OECD offre una mappa eloquente: nel 2018 la quota delle imprese culturali e creative sull’intero comparto produttivo ne rappresenta il media il 7%; soprattutto, tra il 2011 e il2018 la crescita delle ICC supera di gran lunga quella generale del resto delle imprese (18% contro 12%). Dati incoraggianti ma si osserva che la produttività del settore può e deve essere accresciuta ulteriormente. Occorre – e questa è la parte più importante del Rapporto, che non si limita a prendere atto ma indica percorsi e strategie – diffondere informazioni tecniche, assistere le imprese in modo sartoriale, incentivare fertilizzazioni asimmetriche tra le ICC e il resto dell’economia. Non tralasciando il ruolo cruciale che possono giocare politiche incentivanti adeguatamente coordinate.

In questo rimescolamento di carte, che l’affaticamento crescente del sistema culturale istituzionale faceva già presagire, l’irrompere della pandemia ha accelerato dunque la presa d’atto che indietro non si può tornare, con buona pace dei numerosi laudatores temporis acti che attribuivano a un passato del tutto inventato una solidità culturale che la società non ha mai davvero condiviso (che l’élite scriva la storia è ovvio, che sia l’unica a leggerla non è più così scontato, e molti ‘lettori’ del presente vedono le cose diversamente). Dissolti gli alibi che spingevano il sistema culturale a dichiararsi incompreso e minacciato, è arrivato il tempo di ragionare in modo circostanziato.

A complicare le cose, lo scossone della pandemia ha toccato il capitale umano, che ha dovuto ridisegnare glossari, strumenti e canali delle attività culturali e creative, integrando in modo efficace e coerente le dimensioni analogica e digitale; prendendo in considerazione reticoli urbani e territoriali meno gerarchici e polarizzanti di quelli ottocenteschi che tuttora tracciano i percorsi culturali; mettendo in discussione la distinzione binaria – e spesso complementare – tra lavoro dipendente e autonomo. La digitalizzazione comincia ad abbandonare, finalmente, il ruolo di protesi al servizio di un’offerta scolpita nel bronzo, integrando in modo eloquente – e pertanto generando valore consistente – un’offerta culturale ancora cristallizzata in protocolli per più di un verso obsoleti. In questo modo riesce a catturare la capacità di fertilizzazione che i settori culturali e creativi rivelano rispetto ad aree inedite come la sanità, la psicologia, il civismo e la formazione.

Da questa prospettiva, decisamente eclettica ed empiristica, le dinamiche che caratterizzano azioni, relazioni e orientamenti dei settori culturali e creativi richiedono un nuovo disegno dell’infrastruttura territoriale, con attenzione delicata e incisiva verso i processi di rigenerazione urbana e di costruzione dei luoghi (magari superando il modello hausmanniano non più giustificato da funzioni che si stanno estinguendo); simmetricamente ai sommovimenti spaziali occorre registrare alcuni importanti smottamenti della consueta griglia del tempo, che si articola e si complica in relazione a una società sempre più multiculturale, tanto per la sua composizione plurale quanto per il diluirsi del concetto stesso di ‘definitivo’, che rassicurava la società del Ventesimo Secolo e che ora un numero crescente di professionisti considera un vincolo invece che un fattore di conforto.

Finché la cultura è stata vista come la decorazione densa della classe dominante, poteva forse valer la pena sopportarne il costo, con ovvi effetti perversi sul piano distributivo. Nella società dei prossimi anni, alla luce del valore infungibile che cultura e creatività possono innestare nella vita quotidiana così come nelle intuizioni innovative, la cultura rappresenta un investimento sul piano tanto sociale quanto economico. Ne saranno influenzati i processi di costruzione del capitale umano, il disegno delle professioni, la versatilità delle imprese e in generale la non pregiudizialità di azioni che non possono più copiare e incollare modelli da libri di testo. Ne dovranno tenere conto le politiche culturali, che non possono arroccarsi ancora sulla logica dei bandi erga omnes, e che devono affrontare forme trasparenti di negoziato in cui istituzioni, imprese e organizzazioni culturali sappiano porre sul tavolo impegni, aspettative e scambi ragionando finalmente da adulti.

Il quadro dei prossimi anni è segnato da indirizzi strategici e strumenti tecnici, lasciando finalmente la sponda rassicurante delle autocertificazioni: “The Culture Fix” mette a fuoco l’importanza delicata e cruciale della digitalizzazione che può disegnare nuovi modelli di business e nuove forme di collaborazione; sottolinea l’importanza del capitale umano attivo nelle ICC, che nei territori europei rappresenta un lavoratore su 20, nelle aree metropolitane uno su 10, in una mappa settoriale molto estesa, grazie al crescente peso che le competenze (ancora di più, le visioni) culturali e creative assumono in comparti più tradizionali e ‘massicci’. La versatilità di imprese e professionisti del settore implica di norma un certo grado di precarietà; le politiche prefigurate e sostenute dal Rapporto OECD risultano più analitiche e incisive della fiumana di bandi che tuttora caratterizzano l’azione pubblica in campo culturale e creativo: attenuare i divari, equilibrare le competenze, sostenere la transizione digitale, integrare le ICC con gli altri comparti dell’economia.

Un tema di estrema rilevanza, che “The Culture Fix” pone in evidenza, è la centralità della partecipazione culturale, fonte di benefici sociali, di inclusione e rafforzamento della cittadinanza, di impatto esteso e soprattutto infungibile, a superare la lettura dimensionale (e speso fuorviante e forzata) che si ostina a collegare l’esperienza culturale e creativa con notti in albergo, pasti al ristorante, biglietti di viaggio e altre ricadute che ogni attività produttiva e commerciale genera, senza che a nessuno venga in mente di adottarne l’evidenza come giustificazione del finanziamento pubblico. Il Rapporto OECD enfatizza l’importanza di politiche pubbliche che non si limitino (di fatto, si esauriscano) nella mera concessione di sussidi monetari: lo spettro dell’azione pubblica può e deve essere ben più ampio e diversificato.

Non ci resta che aspettare che anche nel sistema istituzionale e culturale italiano si affermi il desiderio di mettere in discussione un assetto convenzionale, burocratico e censorio che tuttora prevale, e di adottare una visione laica capace di far emergere il valore infungibile del sistema culturale e creativo, fonte di pensiero critico, come già scriveva nel 1776 Adam Smith, snodo di condivisione e partecipazione, come le analisi dei nostri anni mettono in risalto, fattore unico di identità e – possiamo dirlo senza temere punizioni celesti – di felicità.

(Fonte: AgCult.it)