Home News Turismo “Cooperative di (quali) comunità”. Una riflessione di Sergio Fortini, coop Città della Cultura/Cultura della Città

“Cooperative di (quali) comunità”. Una riflessione di Sergio Fortini, coop Città della Cultura/Cultura della Città

Le Cooperative di Comunità crescono di numero e di importanza e sono portatrici di esperienze ed approcci diversi che animano molte persone in diversi ambiti territoriali a costruire percorsi comuni finalizzati alla valorizzazione del territorio, al lavoro, allo sviluppo sostenibile. E’ importante ragionare sulle esprienze in essere e diffondere le buone pratiche, ma è anche utile comprendere ed analizzare le differenze dei contesti e i differenti bisogni da aggregare e valorizzare  in un processo condiviso con chi vive una realtà territoriale.

Ci sembra, per questo, importante ospitare alcune riflessioni di chi sta operando per favorire e promuovere queste nuove esperienze cooperative.
 
Il primo intervento, a cui ne seguiranno altri,  è quello di Sergio Fortini, …….

“Le righe che seguono vogliono servire da chiarificazione e completamento di alcuni pensieri espressi durante la densa due-giorni sulle cooperative di comunità, tenutasi a Cerreto Alpi il dieci e l’undici novembre di quest’anno che sta per passare.

Premessa utile a decodificare le righe che seguiranno sta in un ragionamento (mutuato da un incisivo testo di Michela Murgia, Futuro interiore – Einaudi, 2016) che distingue in modo cristallino il concetto di ‘identità’ da quello di ‘appartenenza’: mentre l’identità, di cui spesso si parla, manifesta sostanzialmente un imprinting ‘passivo’ di una persona nei confronti dei luoghi ove è nato e/o cresciuto, l’appartenenza esprime una volontà di prendere parte a una comunità e a un sistema di luoghi che non necessariamente coincidono con quelli natìi, ma che potrebbero anche rappresentare quelli scelti da una persona a un certo punto della propria esistenza, in virtù di una condivisione di valori, principi, modalità di interazione, spirito comune.

Questa accezione sbugiarda l’identità intesa in senso tradizionalista –  come vessillo dato a una cerchia più o meno ristretta di ‘eletti’ per lingua, provenienza, status (qualsiasi esso sia) –  per aprirsi a forme di condivisione che meglio contraddistinguono le dinamiche della contemporaneità, delegittimando, sul piano concettuale, quei qualunquismi che pretendono di identificare con certezza territorialità e (quelle che definirei) ‘rendite di posizione sociali’. Questa distinzione può servire a introdurre la declinazione su cui i valori e le motivazioni di una nascitura cooperativa di comunità possono orientarsi, laddove a legittimarli non è una geolocalizzazione marginale (ad esempio i territori montani), ma uno spirito d’intraprendenza che nasce dalla necessità di rispondere a ‘compresenti mancanze’ della più varia specie: sociali, relazionali, economiche, funzionali.

La questione che sollevo è dunque relativa ai modi di approcciare e dare struttura a una cooperativa di comunità all’interno di un contesto completamente differente da quello che può contraddistinguere situazioni come quella di Cerreto Alpi. È senza dubbio vero che uno dei fini più importanti di un siffatto dispositivo è quello di rifondare i presupposti per una infrastruttura sociale all’interno di un sistema di persone. E questo significa che quel sistema di persone diventa ‘comunità’ nel momento in cui, investendo sul proprio capitale competenziale, esperienziale e relazionale, pone le basi per nuova socialità, nuova coesione, nuovi scambi, nuove economie. Dunque nuova appartenenza. Tale obiettivo appare imprescindibile in un paesino di sessanta anime come in un quartiere periurbano ai margini di una città di qualsivoglia dimensioni. Con una differenza sostanziale che risiede, a mio parere, nelle pre-condizioni:

nel primo caso, l’aggregazione passa per una esigenza basica di sopravvivenza che presuppone il ‘saper fare’ determinate attività senza le quali la vita stessa nel luogo non sarebbe possibile (tagliare la legna, curare i boschi e in generale il paesaggio per prevenire disastri, ripararsi dal freddo, procurarsi il cibo; era un po’ quello che narrava Giovanni Lindo Ferretti nello stesso consesso);

nel secondo caso, l’eventuale necessità di una forma comunitaria risponderebbe a una basica esigenza di ricucitura delle fondamenta sociali del luogo; manca, in questo frangente, quel collante relativo ai presupposti di sopravvivenza che invece esiste (pur con tutte le conflittualità del caso) in una enclave di poche anime e vincolata ai moti della natura. Quella ricucitura fondamentale di cui si ha bisogno nelle frange urbane più degradate è indipendente dall’utilizzo di singole competenze o mestieri finalizzati alla sopravvivenza, poiché non è quella sopravvivenza il primo afflato che induce a stare insieme bensì la necessità di rifondare le basi di una comune socialità, con tutto quello che (non sempre necessariamente) ne consegue: crescita culturale, senso di responsabilità civile, tolleranza, recupero e cura degli spazi comuni, riduzione degli episodi di criminalità, presidio informale del territorio. Peraltro, le peculiarità di una cooperativa di comunità applicabile in simile contesto potrebbero condurre, nell’intercettare ‘nuovi bisogni’, a elementi di innovazione interessanti per quanto concerne ‘nuovi lavori’, inaspettate figure sociali, altre più o meno ibride opportunità.

In questa ottica, la tematica del bene comune è a mio parere dirimente, poiché, mentre nel primo caso questo coincide con la condizione dello stato dei luoghi e necessita ‘basicamente’  – come primo passaggio-chiave, intendo – di come accordarsi per fruirne e tutelarlo, nel secondo caso esso è completamente da riscoprire, quando non da reinventare e può coincidere con uno spazio così come con valori e speranze concrete da riseminare.

L’invenzione di un simile processo può talvolta partire anche da esperienze apparentemente estemporanee, che possono però contribuire a una presa di coscienza, a un risveglio di consapevolezze da parte di alcuni membri di una comunità, capaci di visione e tenaci nel trainare gli altri verso obiettivi comuni. Nel filone dell’innesco estemporaneo inserirei ad esempio il tema delle social streets, come esperienze di inclusione e condivisione finalizzate a un recupero di pre-condizioni di una socialità precaria (quando non assente) e indirizzate a quelle stesse persone che potrebbero forse optare per una forma comunitaria di cooperativa per urgenze diverse da quelle di una Cerreto Alpi.

Quest’ultima non è differenza di poco conto, poiché, se è vero che l’obiettivo dei due casi (marginalità urbana e marginalità territoriale) è senza dubbio assimilabile, se non coincidente, la presenza di pre-condizioni diverse non può a mio parere non incidere sul processo e sulle dinamiche da attuare. Per chi si occupa di rigenerazione, comprendere la multiformità degli obiettivi sopiti e potenziali di un brano di città (o di territorio), così come le intersezioni tra interessi eterogenei, diventa tematica da affrontare ben prima di un’ansia pianificatoria e regolatrice: condizione necessaria per la rappresentazione semantica di uno o più alfabeti nascosti e spesso sovrapposti attraverso cui, più o meno consapevolmente, chi abita i luoghi traduce i propri desideri.”

Sergio Fortini
Progettista, socio della cooperativa Città della Cultura/Cultura della Città