Home News Cultura Bruno Garofalo (lo scenografo di Eduardo): «Tagli all’editoria? Politica miope, sta distruggendo la nostra cultura»

Bruno Garofalo (lo scenografo di Eduardo): «Tagli all’editoria? Politica miope, sta distruggendo la nostra cultura»

Napoli. Bruno Garofalo è regista, scenografo e costumista. Nel 1968 entra a far parte della compagnia “Il Teatro di Eduardo”. Tra il 1968 ed il 1980, realizzerà per il maestro, scene e costumi per 14 allestimenti completi, oltre a collaborare ininterrottamente con lui per tutte le iniziative teatrali ed artistiche che si andavano realizzando in quegli anni, ricavandone una irripetibile esperienza di mestiere e di vita. Nell’arco della sua carriera collabora inoltre con il Teatro alla Scala di Milano, con la Biennale di Venezia, con l’Associazione Teatrale Emilia/Romagna, con il Festival di Taormina, con il Piccolo Teatro di Milano, con il Teatro di San Carlo di Napoli, con il Festival dei Due Mondi di Spoleto, con le maggiori Cooperative teatrali e Compagnie private, e con il Teatro Stabile di Roma per il quale è stato anche direttore degli allestimenti dal ’78 all’80. Nella sua carriera di scenografo e costumista, Garofalo conta al suo attivo la realizzazione di circa duecento spettacoli, e la collaborazione con alcuni dei più importanti registi italiani ed europei. Ed ancora le regie di “Novecento Napoletano”, grande affresco sulla storia della canzone classica napoletana, che ha già avuto tre edizioni, e che ha riscosso particolare successo nelle sue tournèe in Argentina, in Francia, in Germania ed in Giappone e di un altro straordinario e duraturo successo come “C’era una volta Scugnizzi”. Sua ultima fatica la messa in scena di “Napoli nella tempesta” rielaborazione dell’ultimo lavoro di Eduardo, la traduzione de La Tempesta di Shakespeare, interpretato da Mariano Rigillo.  Sarà a giugno a Napoli Teatro Festival con la regia e le scene di “Diario di Sé” di Luca Cedrola.
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Maestro, il fondo per l’editoria è ridotto al lumicino e copre poco più del 20% del fabbisogno. Questo ha messo in ginocchio più di 200 testate giornalistiche no profit. Se la situazione resta questa, le testate saranno costrette a chiudere e in strada an- dranno circa 3mila giornalisti, senza contare l’indotto. Se si realizzasse questa ipotesi, l’informazione in Italia resterebbe solo nelle mani di quattro gruppi editoriali. Non ritiene che questo sia un rischio per la libertà di stampa?
«Come non rispondere “sì”. Certo che è un rischio, ma non di là da venire, è qualcosa che già ci colpisce, siamo coartati e dipendenti dalle posizioni di chi è protetto dal potere vigente, e quello che ci viene comunicato è sottilmente subdolo, nella maggioranza dei casi, non ci vengono più proposte notizie, ma tesi precostituite, spesso nella stesura dei testi, arrivano prima i giudizi di parte,  messaggi subliminali e quando non lo sono, sono comunque  condizionanti, e poi i contenuti di pura informazione».
Nove associazioni di categoria hanno lanciano una campagna per fare pressione sul Governo e approvare una nuova legge sull’editoria, una legge che preveda controlli rigidi, ma che garantisca i fondi necessari alla sopravvivenza dei giornali. Condivide questa iniziativa?
«Sì. Mai come in un momento in cui la libertà e la democrazia a livello mondiale, le Istituzioni hanno il dovere di tenere in vita quello che è il più antico e vitale strumento culturale, certo, ci sono altri sistemi di comunicazione, più sbrigativi ed immediati, ma la poesia della carta stampata ed il tempo da dedicare ad essa, è un esercizio di umanità e di cultura che ci  mantiene umani e vivi, in una condivisione insostituibile. Un giornale, un libro, una lettera, che possiamo toccare, stringere tra le mani, rileggere, conservare come reliquie, restano gli insostituibili, tangibili  compagni della nostra sete di sapere, delle nostre emozioni, dei nostri spazi vuoti, delle nostre solitudini».
È vero che in passato alcuni hanno approfittato di questi fondi, ma questo sta diventando per una certa politica l’alibi per cancellare una voce di spesa che garantisce un diritto sancito dalla Costituzione. Lo stesso Presidente della Repubblica ha chiarito la necessità di tutelare l’autonomia dell’informazione.
«Non si può buttare via il bambino con l’acqua sporca. Il vero problema, come sempre è l’uomo, la sua politica, la sua onestà. La cultura è la sola cosa che ci distingue da una vita animale».
Secondo una ricerca dell’Università di Oxford l’Italia nel 2014 spende  solo 30 cent procapite per la li- bertà di stampa. In Francia si spendono 18,77 euro a testa, in Gran Bretagna 11,68 euro, in Germania 6,51 euro. In Europa siamo ultimi.
«Ultimi per tante cose, questo è un fatto colpevole, dopo secoli di supremazia nella cultura in tutte le sue manifestazioni, la miopia degli ultimi decenni, sta distruggendo tutto  questo, allineamento e omologazione con le realtà peggiori, ed in quelle realtà sono  nate le situazioni peggiori, le dittature, la violenza, il cinico potere finanziario. Questo stato di cose, sembra inarrestabile grazie all’ignavia di chi dovrebbe preservare per noi e per le generazioni future, questo strumento meraviglioso. Se l’uomo che amministra,  pensa di risolvere i problemi  del mondo con  “tagli” incondizionati ed irresponsabili, meglio sarebbe se cominciasse  dalla propria gola. Sarebbe un suicidio più comprensibile».
Molti ritengono che la carta stampata debba scomparire perché non ha un mercato e che si debba puntare esclusivamente sul digitale. Questo significherebbe escludere dalla possibilità di sce- gliere e di informarsi tutta quella parte di popolazione che non ha accesso alla rete.
«E non solo. anche chi come me, spesso per necessità o per mancanza di tempo, usa lo strumento  digitale, ma quando ho bisogno di confrontare la mia mente, la mia intelligenza e a volte la mia anima, sento il bisogno di  riconoscere il mio interlocutore, la sua firma fa di lui un amico, o un compagno, leggere bene insegna a scrivere, scrivere bene spinge gli altri a leggere compro un giornale.  Questa cultura rischiamo di perderla per sempre, i giovani  di adesso e quelli che verranno, mi fanno una profonda pena. Ridotti a comunicare con parole convenzionali, abbreviate, approssimative,  senza più anima, senza emozioni, senza sentimenti. Forse è questo il nostro fututro, per fortuna tra un po’ non ci sarò più, mi dispiace, non per me, per loro: non sapranno mai quello che si sono persi».
(di Mimmo Sica, Il Quodidiano Roma – 18 aprile 2015)
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